La scienza è forse la principale vittima della disinformazione in Italia. Nell’era dei cambiamenti climatici antropogenici, comunicare in modo corretto ed efficace è però una sfida necessaria da intraprendere. Come affrontarla? Come sensibilizzare in modo semplice e diretto evitando allarmismi e fake news?
Due ‘climatologi’, Michele Brunetti e Giorgio Vacchiano ci spiegano la loro:
Michele Brunetti, 45 anni, romagnolo. Primo ricercatore presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR, sede di Bologna. |
Giorgio Vacchiano, 38 anni, torinese. È tra gli 11 ricercatori emergenti più influenti al mondo. Studia la gestione delle foreste per mitigare i cambiamenti climatici. |
In qualità di ricercatori, che quindi vi trovate “dentro” la scienza, quale ritenete sia il modo migliore per comunicare il cambio del clima in atto?
Brunetti: La cosa migliore è portare l’attenzione sulle evidenze. Il cambiamento climatico non è un problema futuro, il cambiamento climatico è già in atto e i suoi effetti sono sotto gli occhi di tutti. Spostare quindi l’attenzione su effetti tangibili forse è la soluzione migliore. I ghiacciai che si ritirano, il fatto che in molte località dove si andava a sciare negli anni ‘80 oggi d’inverno piove anziché nevicare, il confronto tra le temperature attuali e quelle di quando eravamo bambini, sono evidenze di un cambiamento in atto che sono accessibili a tutti.
Vacchiano: C’è una caratteristica propria della scienza che ha importanti ricaduta sulla comunicazione. Il metodo scientifico, per sua stessa natura, si basa sull’errore, l’incertezza e la capacità di auto-correggersi per miglioramenti successivi. Questo però non significa che non possiamo conoscere o prevedere nulla. C’è un proverbio che usiamo spesso: “tutti i modelli sono sbagliati, ma qualcuno è utile”. In altre parole, i risultati scientifici sono utilizzati per prevedere correttamente la realtà in innumerevoli occasioni, tranne in poche eccezioni in cui la realtà si comporta diversamente, quantificabili come margine di errore o “incertezza” di un certo risultato o teorema. Questo, ad esempio, è il motivo per cui le previsioni del cambiamento climatico si basano sull’uso di decine di modelli diversi, mediati tra di loro, affinché le incertezze generate da un modello si compensino con quelle generate degli altri. Ecco, comunicare questo margine di errore è molto difficile, perché spesso chi ascolta lo interpreta come se si trattasse di una completa mancanza di conoscenza. Ad esempio, l’IPCC afferma che il cambiamento climatico è quasi certamente dovuto alle emissioni antropogeniche, con un margine di errore dello 0.5%: un margine che, per le caratteristiche del metodo scientifico, non può mai ridursi a zero. Se questa informazione viene comunicata e capita correttamente, dovrebbe comunque generare una azione, in base al principio di precauzione, mentre troppo spesso è utilizzata maliziosamente da chi ha interessi privati o elettorali per suggerire che “la scienza non è concorde” e organizzare magari dibattiti scientifici dove alle due “tesi” è dato uno spazio uguale.
Si ha come l’impressione che manchi un ponte, una connessione, tra chi fa ricerca e il resto della popolazione. Potrebbe essere proprio questo distacco a rendere impervia la comunicazione scientifica?
Brunetti: Spesso i ricercatori hanno poca ambizione di raccontare i risultati delle proprie ricerche e di portarli ad un livello comprensibile a tutti, forse perché non ne sono capaci (anche la divulgazione è un’arte!) o forse per pigrizia: è più semplice spiegare un concetto ad un collega competente in materia che fare lo “sforzo” di semplificare il concetto per spiegarlo a chi non ha le competenze su quegli argomenti. Quindi forse bisognerebbe “scendere dal pero” e farsi aiutare da chi la divulgazione la sa fare. Bisogna anche aggiungere a nostra discolpa che fare divulgazione è spesso un lavoro extra per un ricercatore, i cui obiettivi primari per fini di carriera professionale sono il reperimento di fondi partecipando a bandi internazionali o nazionali e la pubblicazione di articoli su riviste scientifiche. Forse una soluzione sarebbe aggiungere la divulgazione al nostro curriculum.
Vacchiano: Sì. Ma più che pensare ai problemi legati all’uso di un gergo troppo tecnico, credo che come ricercatori dovremmo smettere di pensare che “informare” sia sufficiente, come se si trattasse semplicemente di mettere acqua in un secchio vuoto. L’inazione e l’opposizione, anche irrazionale, hanno sempre ragioni più profonde della semplice carenza informativa: paura dell’ignoto o del diverso, negazione, bisogno di certezze e di leader sicuri di sé, disagio sociale o economico che genera frustrazione e sfiducia generalizzata, necessità di dare risposte semplici e chiare ai propri elettori o cittadini. Disconoscere questi fattori pretendendo di “comunicare semplicemente i fatti”, affinché questi da soli provochino un cambiamento nelle percezioni e nelle azioni di chi li ascolta, conduce a una comunicazione arida, inefficiente, percepita come sempre più distante da chi invece ricerca rassicurazione emotiva, empatia con i propri bisogni, e ha meno strumenti intellettuali per discriminare le soluzioni efficaci dalle fake news “armate” di una patina rassicurante. Da parte dei singoli ricercatori, credo sia utile proiettare noi stessi in ciò che comunichiamo – le nostre sensazioni, le nostre paure, i nostri desideri, le nostre passioni – ed essere al tempo stesso ricettivi nei confronti di quelle di chi ci ascolta. Ma occorre anche che chi orienta la società dimostri nei fatti che l’istruzione, la conoscenza e la maturazione della consapevolezza di sé e del mondo sono gli elementi fondanti di una società realizzata, promuovendo il ruolo sociale e la credibilità di insegnanti e ricercatori mediante politiche concrete di investimento nella scuola, nella ricerca, nell’università.
È recente la notizia per cui “Il Messaggero” avrebbe pubblicato un articolo totalmente fuorviante sulle questioni climatiche, nel quale si asserisce: “Il freddo di questi giorni allontana i timori sul riscaldamento globale”. Da cosa deriva secondo voi la gravità dell’inesattezza divulgata dal noto quotidiano?
Brunetti: Il Messaggero ha successivamente ritrattato, dicendo che si è trattato di un errore di battitura dove per errore è stato omesso un “non” prima di “allontana i timori sul riscaldamento globale”. A parte questo caso specifico però, spesso si leggono informazioni non corrette su molti quotidiani e su questo mi riallaccio a quanto dicevo prima: se chi è competente su queste tematiche non si presta per divulgare correttamente lo stato dell’arte sui cambiamenti climatici, succede che lo fa chi è in cerca di un po’ di visibilità anche se le competenze non le possiede.
Vacchiano: Il testo dell’articolo in questione parla correttamente di fenomeni meteorologici, cioè di quello che avviene alla scala giornaliera. È stato invece il titolo dell’articolo ad essere gravemente erroneo, facendo intendere che le forti nevicate di un giorno possano dare indicazioni sulla tendenza climatica media di lungo periodo. Interpellato dal CICAP, il quotidiano ha risposto il giorno 6 gennaio evidenziando un refuso nel titolo, che avrebbe dovuto essere “Il freddo di questi giorni NON allontana i timori sul riscaldamento globale”. Al di là di cosa sia successo realmente, mi ha fatto piacere constatare che il problema abbia ricevuto ampia risonanza, dando l’occasione ai media di tenere viva l’attenzione sul climate change e sulla necessità di una corretta informazione al cittadino.
di Simone Valeri