Nella delirante bulimia comunicativa di questi giorni di emergenza covid19, che ci ha regalato il neologismo “infodemia”, si sono fatte strada alcune notizie su alcuni effetti collaterali della pandemia in corso: si sta osservando, nelle zone della Cina più colpite, ma anche nella nostra Pianura Padana, un miglioramento delle situazioni di inquinamento e una riduzione delle emissioni di CO2.
Non sono pochi coloro che, più o meno velatamente, si compiacciono di questi numeri. A noi sembra che ci sia ben poco di cui essere contenti, a meno che non ci si voglia rassegnare all’idea che il nostro modello di vita e di sviluppo sia intrinsecamente insostenibile, incapace di generare il proprio cambiamento, e quindi destinato a continuare la propria corsa verso l’ineluttabile implosione.
Che una forte limitazione delle attività produttive e della mobilità faccia calare l’inquinamento è un fatto ovvio e prevedibile, alla portata di uno studente della scuola dell’obbligo. Solo la malafede di chi ha interessi di bottega da difendere può far credere che siano sempre “ben altre” le cause del climate change e della pessima qualità dell’aria che respiriamo.
Sono però paradossalmente proprio i nemici della transizione, i fautori del Business as Usual, che rischiano di avere un forte argomento a favore delle loro profezie di catastrofe economica come prezzo della sostenibilità. La spinta verso lo sviluppo sostenibile non può che uscire indebolita dall’ipotesi che, per diminuire velocemente e significativamente l’impatto delle nostre attività sui sistemi naturali e sulla salute, sia necessario qualcosa di pericolosamente simile ad un collasso del sistema, come quello che stiamo sperimentando. Non a caso, nel pieno dell’emergenza, la questione della sostenibilità è sparita dai media e dal dibattito pubblico, per lasciare spazio alla grancassa del rilancio dell’economia attraverso “i cantieri”. La solita ricetta, buona per tutte le stagioni, che vede asfalto e cemento come ingredienti immancabili per garantire la famigerata “crescita”.
La vera sfida è invece quella di migliorare il modello di sviluppo senza paralizzarlo, ma al contrario aumentandone equità, flessibilità e resilienza, migliorandone così la capacità di fronteggiare le situazioni di crisi. Da questo punto di vista, anche l’attuale emergenza ci regala preziosi insegnamenti, dei quali dovremo essere capaci di fare tesoro. Il nostro apparato sociale ed economico, con il supporto della tecnologia, ha prodotto un contesto incredibilmente dinamico, in cui i cambiamenti, i progressi, le evoluzioni, ma anche le minacce, si manifestano con una velocità e potenza mai sperimentate prima. Paradossalmente, questo stesso apparato si dimostra sempre più pesante, rigido, fragile, pronto a finire in ginocchio di fronte a qualunque evento imprevisto (non serve il coronavirus, basta pensare a cosa succede nelle nostre città quando cadono 10 cm di neve).
Ecco perché non dobbiamo smettere di puntare ad un modello di sviluppo che, a partire dalla mitigazione dell’emergenza ambientale, renda il sistema più leggero, adattabile, resiliente. Miglior uso delle risorse naturali, microproduzione diffusa di energia, efficientamento termico degli edifici, promozione della mobilità dolce – solo per fare qualche esempio – sono le misure di lungo periodo che possono portarci fuori da questa crisi, mettendoci in condizione di affrontare quelle che verranno.