di Roberto Cavallo
Ricorre oggi, 15 aprile, il centenario dell’affondamento dell’inaffondabile Titanic.
Lo ricordo con questo paragrafo, estratto da “Meno 100 chili”, che avevo voluto intitolare “Il buon senso del Titanic“: “La punta di un iceberg. I rifiuti urbani sono solo la punta di un iceberg.”
Me lo ripeteva con insistenza il responsabile di Legambiente quando, da pochi giorni, il sindaco mi aveva chiamato a ricoprire il ruolo di assessore. Agricoltura, ambiente, protezione civile. Tre deleghe “leggere” per una città cuore dell’enogastronomia mondiale, in mezzo a colline da patrimonio dell’Unesco, appena uscita con le ossa rotte da un’alluvione, che ha lasciato dietro di sé qualche decina di morti. Così, ancora oggi, ho quell’immagine dell’iceberg davanti agli occhi. E oggi, mentre scrivo, l’iceberg mi fa venire in mente il Titanic. L’ RMS Titanic.
“La massima espressione della tecnologia navale, ed era il più grande, veloce e lussuoso transatlantico del mondo. […] Il Titanic era un gioiello di tecnologia ed era ritenuto praticamente inaffondabile.”
La storia la conosciamo tutti. Grazie anche a James Cameron, Leonardo di Caprio e Celine Dion.
Ma forse la viviamo come un grande film, o al massimo come la rievocazione di un evento drammatico. Ma di drammatico c’è la metafora dell’arroganza umana. Il pensare di essere inaffondabili. Invincibili. Il pensare di spingere i motori al massimo, anche quando solo due eliche su tre, tra l’altro le più piccole, sono a direzione invertibile. Quando poi un pezzo di ghiaccio, preso di striscio, ti affonda in poco più di due ore e mezza. Non riesco a non pensare all’insostenibilità di alcuni nostri comportamenti, al fatto che in terza classe ancora oggi ci siano molte più persone che in prima. Che di scialuppe di salvataggio non ce ne sono per tutti. Che vogliamo calare le scialuppe caricandole per un terzo della loro capacità, perché non ci va di salvarci con quelli di altre classi. Ma soprattutto che il tempo di affondamento è così rapido da non permettere a nessun’altra nave di arrivare in tempo e che i messaggi di aiuto che vengono lanciati dagli addetti alle trasmissioni non sono capiti da chi potrebbe e dovrebbe riceverli.
Non siamo sintonizzati. Così quando ripenso a Beppe, segretario del circolo di Legambiente alla fine degli anni Novanta, che con la sua barba appena imbiancata mi parla dell’iceberg di rifiuti, la mia testa si riempie di immagini buie, fredde, come l’oceano, che cento anni fa circa si è portato via 1.523 persone.”