di Roberto Cavallo
Il rapporto tra il cibo e la filosofia è stato al centro delle tre serate di Pensiamo il cibo, festival tenutosi a Torino in novembre. Tra queste “L’abbondanza e la fame: come custodiamo la dispensa del Pianeta”, con la partecipazione di Roberto Cavallo che ha stimolato le riflessioni di Bruno Bignami e Federico Vercellone. professore di Estetica all’Università di Torino – autore di numerosi saggi sull’estetica tra cui ricordiamo Oltre la Bellezza (Il Mulino, 2008), Pensare per immagini (con Olaf Breidbach, B. Mondadori, 2010), Dopo la morte dell’arte (Il Mulino, 2013).
Professore quanto lo spreco di cibo ha a che fare con i nostri sensi?
Istintivamente verrebbe da associare il senso della “fame” a un bisogno primario. Ma le cose non funzionano sempre solo così. Diciamo “ho fame”, ma sempre più spesso non lo diciamo perché abbiamo biologicamente bisogno di calorie, ma perché nutriamo un desiderio anche culturale di qualcosa. Non a caso si dice per esempio: “mangiare con gli occhi”.
Questo significa che ci sono sensi che prevalgono sugli altri nella nostra cultura?
Certamente la vista, l’udito, i sensi della lontananza, hanno preso modernamente il sopravvento sui sensi della prossimità, il tatto, l’olfatto e il gusto. La nostra mente decodifica prima l’immagine dell’oggetto in sé. Siamo attratti da una specifica mela, ad esempio, che vediamo su un cartellone pubblicitario o in uno spot televisivo. Siamo più attratti dal colore, dalle dimensioni, dalla luce di un oggetto che non dalle vitamine o dagli zuccheri contenuti.
In pratica mangiamo con gli occhi!
Mangiamo anche sulla base di processi imitativi. Ma questo non è un male, anzi.
La fame non è più solo biologica, ma è anche culturale. Se decodifichiamo questo concetto il cibo assume un valore ancor più interessante. Se cerchiamo di valorizzare più sensi, arricchiamo la comunicazione culturale e dunque veniamo a possedere più chiavi di comunicazione anche per contenere gli sprechi.
Cioè quando riusciamo a mangiare con tutti i sensi sprechiamo meno?
In un certo senso sì. Il cibo è stato il riflesso della globalizzazione, per cui mangiamo in ogni posto del mondo le stesse cose, un po’ come ci ricorda Marc Augé nella sua teoria dei non luoghi. Se però riconduciamo un prodotto, un frutto, una ricetta ad una regione si attivano più sensi, gli aromi di un mondo: così il cibo torna a far cultura; se comprendiamo che, mangiando, stiamo addentrandoci in un territorio ricco di fascino e sorprese siamo certamente indotti a rispettarlo e dunque anche a sprecare meno.
Ma potremmo anche essere indotti ad atteggiamenti di esclusione, a una riconferma delle nostre abitudini avite, e a rifiutare i cibi di alcune culture..
Questo è un altro livello di approfondimento del tema. Occorre distinguere tra costumi, tradizioni, localismi, ecc. Culture più aperte si sono lasciate e si lasciano contaminare, altre si chiudono mantenendo rigidi dettami di consumo. A mio avviso diviene stimolante accettare il cibo proveniente da altre culture gastronomiche intendendo questo come una contaminazione positiva. In fondo anche questo, differenziare i consumi, è uno stimolo ad aprirsi, a scoprire e a inventare il nuovo, e alla lunga a contenere gli sprechi talora legati alla monotonia e alla stanchezza di avere davanti sempre le stesse cose.