Il 31 maggio si è tenuta la serata inaugurale di Cinemambiente a Torino. La 21esima edizione del Festival cinematografico dedicato all’ambiente durerà fino al 5 giugno. La prima serata ha visto come protagonista il cambiamento climatico e le sue conseguenze, in particolare l’innalzamento del livello delle acque.
Una catastrofe già in corso: nel Pacifico, le isole Kiribati spariranno entro la fine del secolo. A raccontarlo due ospiti d’eccezione: il documentario di Matthieu Rytz “Anote’s Ark” e l’ex-presidente delle isole Anote Tong.
Prima della proiezione e dell’intervento del presidente gilbertese è intervenuto, come consuetudine di Cinemambiente, il meteorologo Luca Mercalli. Il punto della situazione è preoccupante: ancora una volta gli indicatori ambientali sono peggiorati. Le soluzioni ci sono, e Cinemambiente ne mette a disposizione tante tramite i propri film, ma i problemi da risolvere sono – ahimè – in numero maggiore.
Dal 1970 l’appuntamento annuale con l’Overshoot Day – ovvero quel giorno dell’anno in cui la Terra termina le risorse rinnovabili a disposizione e comincia a erodere quelle non rinnovabili, sottraendole così alle generazioni successive – si è avvicinata: nel 2017 è caduto il 2 agosto. Nel mondo, perché in Italia la data “di scadenza” è stata raggiunta molto prima, ovvero a metà maggio. Questo significa che se tutti consumassero come un italiano medio, avremmo bisogno di un pianeta e mezzo.
Quello del 2017 è il secondo allarme che gli scienziati sottoscrivono dopo il 1992, quando c’è stata la conferenza di Rio de Janeiro. Allora furono 1700 i ricercatori a firmare l’appello per arrestare il riscaldamento globale. Oggi sono 15mila. Un indicatore importante sullo stato di preoccupazione globale.
Quando è nato Cinemambiente, quindi circa 20 anni fa, c’erano 369 ppm di anidride carbonica in atmosfera. Oggi abbiamo toccato un livello record (411 ppm) che non ha eguali in 800 mila anni di storia. Non è un caso se il 2017 è stato il terzo anno più caldo di sempre dopo il 2015 e 2016.
Intanto il Polo Nord continua a perdere ghiaccio con conseguenze sugli agenti atmosferici e sull’innalzamento dei mari. Pensate, questi crescono a un ritmo di 3,2 millimetri l’anno. Rispetto a inizio ‘900 stiamo parlando di almeno 20 cm.
Ecco che inserisce il caso delle piccole isole Kiribati che si prevede spariscano entro la fine del secolo. Ormai è troppo tardi, anche se mettessimo in pratica le misure accordate durante la Cop di Parigi. Questo non significa che non sia necessario intervenire: per impedire che ciò succeda in altre parti del mondo, è necessario applicare gli accordi e limitare la crescita delle temperature a 2 gradi.
Secondo i dati raccolti da Mercalli abbiamo tempo fino al 2020 per far sì che le temperature crescano di 2 gradi, con effetti contenuti sul clima. Ma il tempo è davvero poco e dalle Cop21 a oggi non s’è fatto nulla. Per questo i ricercatori pensano che il traguardo dei 3 gradi sia più fattibile. Ma se non si interviene nemmeno nel decennio 2020-2030 i gradi saranno 5 con conseguenze catastrofiche per la Terra.
Un esempio? La Kiribati italiana è sicuramente Venezia e con lei l’intero delta del Po. Qui il livello del mare si è innalzato di 30 cm nel giro di un secolo. Rovigo, Jesolo, Cesenatico: tutti questi paesi vivono già al di sotto del livello del mare e se non vengono inondati è solo grazie all’uso di idrovore, che però oltre a “divorare” l’acqua in eccesso, divorano anche energia!
Le Nazioni Unite hanno già definito quali sono le priorità. L’immagine qui sotto riporta la cosiddetta wedding cake preparata dalle NU. Come si può notare, l’economia non è la priorità ma lo è invece tutto ciò che riguarda l’atmosfera (strato in basso). Invece di aprire i notiziari con il panico dei mercati, forse è necessario concentrarsi sul panico ambientale.
A questo punto vediamo il documentario. Anote’s Ark (L’arca di Anote) affronta il caso dello stato di Kiribati attraverso la lotta dell’ex-presidente Anote Tong. Tong – presente in sala – fa di tutto per salvare il suo popolo dal disastro ambientale in corso (Kiribati è un’isola posta sull’equatore dove normalmente non si dovrebbero creare uragani o maremoti: eppure negli ultimi anni questa terra è stata più volte colpita da fenomeni atmosferici violenti causando morti e sfollati). La testimonianza di Tong è un cono di luce sulle conseguenze delle emissioni inquinanti generate dai paesi sviluppati e gli effetti che queste stanno causando a piccoli stati come le Kiribati. L’attivismo di Tong si alterna al destino di Semerary, madre di sei figli, costretta ad abbandonare la sua isola per ricominciare una nuova vita in Nuova Zelanda.
«Si parla tanto di orsi polari a rischio nel Polo Nord quale indicatore del cambiamento climatico. Noi siamo solidali con gli orsi ma non dimenticatevi di noi essere umani» scherza Tong, che continua a cercare una soluzione per gli abitanti di Kiribati, dovesse anche spostarli su un’altra isola. Per Tong, l’Australia e la Nuova Zelanda hanno molta terra: eppure invece di riconoscere che il loro stile di vita sta distruggendo l’habitat degli isolani vicini e invece di rimediare offrendo ospitalità, chiudono le frontiere. E questo sta succedendo in tutto il mondo. «Io insisto sui concetti di resilienza come capacità di adattamento e di immigrazione con dignità. Non mi piace il termine di rifugiato climatico perché ha un’accezione negativa. Le persone si muovono in cerca di un nuovo ricollocamento, perché la propria casa è diventata inospitale, e non per colpa loro. Negli anni ho spiegato alla mia gente come adattarsi ai nuovi contesti senza perdere la diginità. L’assenza di dignità crea cittadini di seconda categoria».
Insomma, ancora una volta il cinema si conferma con un importante mezzo di condivisione di tematiche ambientali, uno strumento impattante in grado di mettere a conoscenza di problemi ma delle relative soluzioni. Nella speranza che gli spettatori agiscano, una volta usciti dalla sala.