Sono tantissimi i prontuari e le infografiche che illustrano i tempi di degradazione dei rifiuti in mare. Nell’immagine qui sopra ne prendiamo a esempio uno che abbiamo fotografato presso il Museo A Come Ambiente di Torino, dove è in corso la mostra “Out to sea? The plastic garbage project” , la prima mostra sull’inquinamento marino da plastica.
Senza scendere nel dettaglio della mostra – che è senz’altro ottima e varrebbe un articolo su come comunicare questa problematica attraverso una mostra museale – ciò che ha colpito di più l’attenzione della nostra redazione – che come sapete si occupa di messaggi ambientali – è il pannello di cui sopra. Si vedono vari oggetti e per ciascuno i tempi di degradazione in mare. Inoltre il pannello espositivo è intitolato “Per quanto tempo i rifiuti restano nell’ambiente?”. Risposta: andiamo dai 2 mesi del torsolo di mela ai 3 mesi del cartone di latte, dai 20 anni della busta di plastica ai 450 anni del pannolino e della bottiglie di plastica, fino al “tempo indeterminato” della bottiglia di vetro.
Ora, due sono i messaggi su cui riflettere (e ripeto, sono tante le infografiche che circolano e che ripropongono suppergiù la stessa distinzione, quindi questa analisi vale per tutte e non solo per quella dell’immagine in questione): il primo di questi riguarda il confronto tra i diversi materiali. A parità di tempi di decomposizione, il vetro è più “persitente” della plastica, quindi se ci basassimo solo sui tempi di degradazione, esso rappresenterebbe un pericolo maggiore. Eppure sappiamo che il vetro diventa sabbia. Quasi un “non-rifiuto”, un inerte, al netto dello spazio che occupa se gettato in mare. Quasi potremmo dire che alla peggio, se proprio dovessimo scegliere cosa gettare in mare – se mai per assurdo dovessimo fare una scelta così poco raccomandabile – meglio una bottiglia di vetro che di plastica.
E questo ci ricollega con il secondo messaggio, ancora più interessante: cosa significa che dopo 450 anni una bottiglia di plastica si è degradata? Significa che il polimero in questione si è depolimerizzato, per cui le molecole che prima formavano una catena di monomeri (il polimero, appunto) ora sono slegate l’una dall’altra e fluttuano singolarmente nelle acque. Ma siamo sicuri che una volta degradata la plastica non sia più inquinante? Che dire delle micro e nano plastiche, cioè dei frammenti – alcuni dei quali invisibili all’occhio umano – che vengono ingeriti dalla fauna marina, compresa la base della piramide alimentare, ovvero i krill? Difficile dirlo. Verrebbe da pensare che la plastica non smette mai di inquinare una volta entrata in acqua o che probabilmente – lei sì – ha bisogno di tempi “indeterminati”!
Abbiamo chiesto un parere scientifico a Mariasole Bianco, biologa marina e docente di divulgazione naturalistica presso l’Università di Genova. “La plastica non si decompone ma si frammenta in pezzettini sempre più piccoli (micro/nano plastiche). Questi pezzettini in mare si comportano come spugne e assorbono agenti chimici come per esempio pesticidi ed erbicidi presenti in acqua. Oltre a questi agenti chimici le piccole particelle di plastica assorbono anche gli “odori del mare” e per questo motivo, unito ai colori vivaci, vengono scambiate da molti animali marini per cibo. Così la plastica entra nella catena alimentare fino ad arrivare sulle nostre tavole”.
Insomma, il messaggio relativo ai tempi di degradazione è “parziale” e in qualche modo, si può dire, fuorviante. Perché il messaggio è ben più grave, a ben vedere: mentre conosciamo, con un certo grado di precisione, quando la plastica entra nel mare, di certo non possiamo dire con la stessa sicurezza quando questa se ne andrà.
Maurizio Bongioanni