Uno studio recentemente pubblicato su “Nature Communications” da Adrian Williams, dell’Università di Cranfield, nel Regno Unito, insieme a colleghi dell’Università di Reading, calcola il risparmio di emissioni di CO2 derivante dallo sviluppo delle coltivazioni e gli allevamenti biologici, mettendo in luce un cosiddetto “paradosso del biologico”.
L’analisi ci mette in guardia su una possibile inutilità dello sforzo di conversione del settore: infatti, se, per compensare la riduzione della produzione dovuta all’abbandono dello sfruttamento intensivo dei terreni/animali, i paesi si ritroveranno ad importare di più prodotti dall’estero, le emissioni totali di anidride carbonica potrebbero addirittura aumentare.
Andando maggiormente nel dettaglio, la ricerca, condotta su Galles e Inghilterra, sottolinea come sebbene sia effettivamente vero che ogni bene prodotto con metodi biologici consenta di risparmiare il 20% di emissioni nel caso delle coltivazioni agricole e il 4% per quanto riguarda gli allevamenti, non bisogna dimenticare che, tuttavia, rinunciare completamente al metodo intensivo porterebbe a un calo della produzione del 40 per cento.
Considerando che il fabbisogno alimentare dei due paesi presi in considerazione non varierebbe in maniera proporzionale, gli Stati dovrebbero ricorrere a una maggiore percentuale di beni importati, e quindi trasportati con metodi inquinanti, molto probabilmente risultanti da sfruttamento intensivo.
Lo studio ci invita quindi a considerare i risvolti del processo di conversione a livello globale: non è detto che le conseguenze positive a livello micro portino per forza ad un miglioramento complessivo a livello macro. Addirittura, in questo caso, l’effetto sarebbe negativo.
La notizia di questo “paradosso” è stata riportata da alcuni media italiani e in questa sede riteniamo opportuno fare chiarezza, appoggiandoci alle considerazioni dell’agronomo Roberto Cavallo nella sua envinews del 24 ottobre, su alcuni aspetti, forse tralasciati, che permettono di leggere in modo diverso, ma forse più completo, questi allarmanti risultati.
Innanzitutto, la biodiversità agricola dei diversi paesi: se veramente si vuole adottare un approccio globale, non bisogna dimenticare che in luoghi con clima diverso, per esempio quello mediterraneo, non occorrerebbe importare una tale percentuale di prodotti; la varietà di colture permette infatti, rispetto ad un’agricoltura (come quella dell’Inghilterra e il Galles) molto specializzata, una maggiore “resilienza” del terreno. Lo stesso studio produrrebbe quindi, se condotto in altre aree, a dei risultati diversi in termini di riduzione della produttività.
In secondo luogo, un discorso esclusivamente legato alla quantità prodotta rischia di essere fuorviante: infatti, come sappiamo, l’agricoltura biologica permette di ottenere alimenti le cui le proprietà nutritive sono maggiori. Le considerazioni qualitative sono quindi d’obbligo se si intende dibattere sui benefici derivanti da una riconversione dei metodi di coltivazione. Le scelte di che cosa importare e che cosa mangiare possono infine influire in modo sensibile sul bilancio finale di emissioni di CO2.