Dopo decenni nei quali l’umanità sembrava convinta, a dispetto del buon senso e delle evidenze scientifiche, che le capacità della Terra di sostenere i nostri modelli di vita e consumo, e digerirne le scorie, fosse infinita, sembra finalmente giunto il momento della consapevolezza dei limiti della biosfera.
Stimolate dall’impatto mediatico di alcune emergenze, prima tra tutte quella della plastica negli oceani, moltissime campagne vengono lanciate in tutto il mondo da istituzioni, imprese, associazioni, per tentare di fermare lo tsunami di rifiuti che sta travolgendo la terra e i mari.
Norme, linee guida e buone pratiche sul tema ci dicono che i materiali a fine vita debbono essere prima ridotti, poi riutilizzati, in seguito riciclati e, solo in mancanza di alternative, portati a smaltimento. Purtroppo, in molti casi questo flusso virtuoso viene ignorato nelle sue parti fondamentali, ripetendo l’errore che, da sempre, azzoppa la comunicazione sulla gestione dei rifiuti: si discute, anche animati da buone intenzioni, su come liberarsene, dimenticando di chiedersi se tutti quelli che produciamo siano proprio inevitabili.
Come sempre, la discussione è in balìa di troppi interessi economici che, cantando le magnifiche sorti e progressive garantite dalla tecnologia, ad esempio le plastiche compostabili, vogliono mantenere e alimentare business intrinsecamente insostenibili. Solo per fare qualche esempio, l’acqua in bottiglia, le stoviglie usa e getta o il caffè in capsule. Spostandosi sui prodotti durevoli, non si può non ricordare l’impatto dell’obsolescenza programmata di molti prodotti tecnologici, o della diffusione del fast fashion, veri attentati alla salute del Pianeta, con implicazioni non trascurabili anche sul piano sociale ed economico.
Sia chiaro, avere individuato soluzioni in grado di limitare gli impatti dei nostri rifiuti è altamente positivo: se una bottiglia di plastica viene dispersa nell’ambiente, è ovviamente meglio che sia in grado, in tempi ragionevoli, di degradarsi senza lasciare pericolosi residui. Per evitare di cadere in un “paradosso di Jevons della bioplastica”, dobbiamo però ricordarci che quella bottiglia, benché compostabile, è pur sempre un rifiuto. Dopo l’uso dovrà essere raccolta, trasportata, stoccata, trattata, con notevole dispendio di risorse ed energia. Siamo proprio sicuri che sia “ecologica”, “sostenibile”, come recita l’etichetta che la ricopre? È indispensabile che le scelte politiche e i nostri stili di vita si evolvano velocemente verso abitudini che conosciamo da sempre: limitazione del packaging, uso di stoviglie riutilizzabili, incentivazione del vuoto a rendere.
Solo così potremo sperare di venire a capo del problema: con la consapevolezza che gli unici rifiuti davvero sostenibili sono quelli che non produciamo.
Di Rolando Cervi