In occasione di DAT – Diritti a Teatro, rassegna di teatro civile in scena ad Alba (Cuneo) dal 15 gennaio al 27 maggio 2020, è stato chiesto ad AICA di raccontare il rapporto tra teatro e comunicazione ambientale. Il primo spettacolo in cartellone, “Little Boy”, è basato sul carteggio “La coscienza al bando” pubblicato negli anni Sessanta. Nello scritto si confrontano Gunther Anders, intellettuale tedesco, e Claude Eatherly, il pilota statunitense che ha dato il via libera al rilascio della bomba su Hiroshima.
Eatherly, come è possibile leggere dalla pagina su Wikipedia, era il pilota incaricato di verificare se le condizioni meteorologiche permettessero il rilascio della bomba, visto che la visibilità doveva essere ottimale per quella delicata operazione. Rientrato nei ranghi dopo aver dato l’ok a procedere, Eatherly rimase terrorizzato da ciò che vide: l’esplosione causò 200 mila morti e Hiroshima sparì in una nube gialla.
Senso di colpa
Quel fatto creò in Eatherly ansia e frustrazione. Chiese di essere congedato e donò la pensione militare che gli spettava – poiché non poteva rifiutarla – alle vedove dei caduti in guerra. Eatherly era irascibile, la notte era perseguitato dagli incubi e finì per essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Uscì ma ci tornò dopo aver commesso alcuni reati quali falsificazione di documenti e rapina a mano armata. Venne amnistiato e ricoverato nuovamente nella clinica. Provò più volte il suicidio, divorziò e, giudicato pazzo, perse la possibilità di vedere i suoi figli.
Poi ricevette una lettera. Quella di Gunther Anders. Il quale lo rassicurava provando a spiegare che il suo senso di colpa era in realtà un messaggio di speranza nei confronti dell’umanità. Perché se riusciva a rendersi conto di ciò che aveva fatto, significava che ancora era un essere umano. Se una vite, un singolo ingranaggio poteva sentirsi in colpa per l’ordine eseguito, c’era ancora una speranza di rovesciare l’insensatezza della complessa macchina.
E Anders suggerì all’ex-pilota di lavorare sulla propria empatia. Di scrivere ai famigliari delle vittime, raccontando ciò che provava. Se lui empatizzava con loro, loro avrebbero empatizzato con lui.
“Green guilt”
Il senso di colpa di Eatherly fa un collegamento con il “green guilt”, ovvero il senso di colpa ecologico. Nella nostra società immersa in un continuo flusso di informazioni, tutti sappiamo – o perlomeno possiamo sapere e quindi far finta di non sapere – quali sono i comportamenti sostenibili e quali no. C’è chi si sente in colpa a prendere la macchina quando non ce n’è bisogno, quando mangia più carne del dovuto, o quando spreca acqua. C’è poi chi invece rimuove questo senso di colpa e non si pone nemmeno il problema.
Oggi la comunicazione ininterrotta e la grande quantità di informazioni ci rende tutti dei potenziali Eatherly. La risposta globale è la rimozione del senso di colpa, quasi in maniera auto-immunitaria: una società, per non impazzire, rimuove il senso di colpa a livello globale.
Un po’ come propongono i negazionisti: i vari Trump, Bolsonaro, ecc. lavorano sulla rimozione del senso di colpa. “Non è un problema nostro” diventa “Non è un problema”. Se il problema non esiste, non esiste nemmeno il senso d’ansia che ne deriva. Gli elettori premiano questo tipo di politica.
Teatro ed empatia
Ma tornando al teatro: gli spettacoli, come quelli impegnati proposti da DAT, diventano strumenti necessari a comunicare questo senso di colpa perché ci chiedono di lavorare su di esso, non di ignorarlo. Mettere in comunione l’empatia che si viene a creare intorno al palco è l ‘unico modo per trovare insieme una via d’uscita, una exit strategy a livello di gruppo e non individuale. Discorso che non vale solo per l’ambiente ma per tutte la altre tematiche proposte in cartellone, dalle discriminazioni di genere al precariato.
Come dice Anders “Il metodo usuale per venire a capo di cose troppo grandi è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa. Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a capo”.