In un articolo recentemente pubblicato sul The Guardian, viene messo in luce un interessante problema relativo alle festività natalizie (ma non solo): i cittadini inglesi, quest’anno, hanno finora speso 2,4 miliardi di pounds per nuovi outfit da indossare in occasione delle feste natalizie; abiti che, secondo uno studio di Hubbub – organizzazione benefica che si occupa di campagne di comunicazione ambientale -, vengono in seguito indossati un paio di altre volte, non di più. L’articolo continua, affermando che i britannici spendono, in media 73, 90 pounds ciascuno per l‘acquisto di capi d’abbigliamento che, come molti degli intervistati ammettono, spesso sono utilizzati solo per l’occasione specifica per cui sono stati comprati. Lo studio prosegue, osservando che gli uomini inglesi spendono in media più delle donne: 88,14 pounds contro 63,12 pounds, è quanto riporta un’indagine svolta su un campione di 3008 adulti.
Al di là del dato preoccupante relativo al periodo natalizio, Hubbub ci permette di riflettere su uno dei settori più problematici a livello di impatto ambientale, ovvero l’industria del cosiddetto “fast o throwaway fashion”, definibile come il settore dell’industria della moda che “produce abiti economici, di bassa qualità (ispirati alle mode del momento), molto, molto velocemente”
Un comitato parlamentare inglese ha riportato inoltre recentemente che l’industria tessile sola crea 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, consuma enormi quantità di acqua ed inoltre 35% delle microplastiche presenti negli oceani provengono dalle fibre sintetiche di cui sono composti i vestiti abbandonati e dispersi nell’ambiente.
Tornando all’indagine, questa mette in seguito in luce l’ignoranza degli acquirenti rispetto alle componenti dei vestiti: solo il 24% degli intervistati è infatti a conoscenza del fatto che abiti luccicanti, o paillettati contengano plastiche. Su 169 “party dresses” griffati analizzati di 17 diverse marche che vendono online, il 94% è composto parzialmente o totalmente di plastica, o materiali derivati dalla plastica.
Quali le possibili soluzioni?
Innanzitutto, è necessaria una presa di coscienza, seguita poi da una reazione netta al consumismo dilagante.
Per quanto riguarda la prima azione, ci stanno già pensando i ragazzi del Fridays For Future, i quali, nell’ultima manifestazione del 29 novembre hanno messo sotto accusa il Black Friday e l’industria tessile del fast fashion appunto, invitando al boicottaggio di alcune delle catene più frequentate. Questa crescente sensibilità per il tema sembra essere confermata da un dato positivo, sempre risultante dall’indagine di Hubbub, che indica la tendenza dei giovanissimi inglesi (tra i 16 e i 24 anni) ad adottare modi di consumo più green in termini di vestiario rispetto alla generazione precedente: il 36% afferma di scambiare spesso i vestiti con gli amici, e il 30% di acquistare vestiti presso i charity shops.
Per quanto riguarda le soluzioni alternative di acquisto, in parte già anticipate nel paragrafo precedente, è importante considerare i vestiti di seconda mano per gli acquisti quotidiani, così come l’opzione di affittare degli outfit per le occasioni festive. Sarah Divall, coordinatrice di progetti presso Hubbub afferma a questo proposito che i tempi sono propizi per cambiare le proprie scelte di consumo: “gli abiti vintage o di seconda mano non sono mai stati così alla moda come nell’ultimo periodo, ed è solo questione di tempo perché le persone realizzino l’impatto catastrofico dell’industria della moda. Essere ecologisti non significa vestirsi male. Ci sono così tante opzioni eco-friendly ormai: dallo scambio di vestiti, all’affitto di outfit specifici, ai negozi di second a mano o i charity shop, così che spendendo poco ci si possa vestire come si desidera, senza danneggiare ulteriormente il pianeta.”