Viviamo in un’epoca in cui si producono così tanti rifiuti che non sappiamo più dove metterli. Questo problema si è diffuso a partire dalla seconda metà del XX secolo perché, sino ad allora, grazie al numero contenuto della popolazione terrestre e alla sostanziale produzione limitata di beni materiali, non erano mai stati registrati problemi “globali” di gestione delle risorse. È evidente che anche nelle epoche passate i beni realizzati non fossero infiniti, ma essendo spesso realizzati con materiali deperibili non è semplice comprendere cosa venisse riusato o riciclato. Se gli studiosi hanno potuto appurare che, in varie epoche, soprattutto in campo edile, fosse normale riciclare pezzi di edifici ed elementi decorativi, cosa sappiamo della preistoria?
Da qualche mese abbiamo un tassello in più nella comprensione di ciò che avveniva 400 mila anni fa, nel Paleolitico, quando i nostri antenati erano cacciatori- raccoglitori ma già sapevano bene che non bisognava buttare mai nulla.
Quest’anno, infatti, il Tubingen Prize for Ice Age Research è stato assegnato allo studio realizzato da un gruppo di ricercatori guidati dalla Dott.ssa Flavia Venditti Post-Doctoral Fellow dell’Università di Tel Aviv (TAU) e membro del Laboratorio di Analisi tecnologica e funzionale di manufatti preistorici (Ltfapa).
La ricerca della Dott.ssa Venditti – The recycling phenomenon during the Late Lower Palaeolithic. The case study of Qesem Cave, Israel – ha portato alla luce che gli antichi cacciatori-raccoglitori vissuti 400.000 anni fa nel sito del Paleolitico Inferiore di Qesem cave, riciclavano antichi strumenti in pietra non più utilizzati per produrre piccole e taglienti schegge. Attraverso accurate analisi microscopiche e chimiche condotte in collaborazione con il “Laboratory of Technological and Functional Analyses of Prehistoric Artefacts” dell’Università La Sapienza di Roma, la Dott.ssa Venditti ha diagnosticato tracce riconducibili alla lavorazione delle carcasse animali attraverso attività di macellazione, ma anche di lavorazione di osso, pelli e persino di piante e tuberi.
Grazie alle particolari condizioni di preservazione degli oggetti analizzati, è stato possibile identificare micro-residui di osso, tessuti animali e grasso relativi al loro utilizzo. Nei suoi esperimenti, la Dott.ssa Venditti ha dimostrato come questi piccoli strumenti fossero particolarmente adatti a compiere specifiche attività di taglio con un alto grado di accuratezza. Inoltre, attraverso la distribuzione degli oggetti nel sito, la ricercatrice ha messo in luce una chiara divisione spaziale delle attività nelle diverse aree della grotta.
In che modo avete scoperto che nel Paleolitico inferiore venivano riciclate schegge di selce?
Questo comportamento è stato riconosciuto attraverso lo studio della tecnologia litica che si occupa di ricostruire le catene operative della produzione degli strumenti in pietra scheggiata (lame, raschiatoio, schegge, nucleo ecc…). Si è notato che gli hominins di Qesem raccoglievano strumenti in pietra antichi come vecchie schegge abbandonate e non più funzionali (vecchie anche di centinaia o migliaia di anni…lo possiamo stimare dalla presenza delle patine) per utilizzarle come materia prima per produrre delle nuove schegge. Il mio compito è stato capire e riconoscere per quali scopi venivano utilizzare queste schegge di riciclo attraverso l’osservazione microscopica delle loro superfici e attraverso l’analisi dei residui.
È verosimile che la pratica del riuso non si limitasse alle sole schegge di selce? Ci sono altri esempi nella Preistoria di riuso?
Alla base di questa domanda c’è un problema di carattere terminologico che non è stato ancora risolto neanche dagli esperti della comunità scientifica che hanno affrontato questi argomenti prima di me. Per definizione, riciclo e riuso sono due pratiche diverse. Il riciclo prevede che la materia venga completamente trasformata per la produzione di nuovi prodotti mentre il riuso implica che l’oggetto nella sua interezza possa anche non cambiare forma ma solo funzione. In archeologia questo non è facile da osservare, specie per i periodi più antichi, ma è importante tenere a mente la differenza. Alcuni studiosi considerano la produzione su osso come un effetto del riciclare la materia prima delle ossa di animali. Io non sono d’accordo con questo pensiero. Per me si parla di riciclo se quell’osso, utilizzato prima come percussore per produrre schegge da un nucleo è stato poi lavorato per produrre un punteruolo ad esempio, ma per poterlo dire devo riuscire a riconoscere la sua funzione precedente da quella attuale. Sulla selce o materiali rocciosi questo discorso è più semplice perché le patine (cambiamenti fisici come colore e lucentezza delle superficie della selce) aiutano a riconoscere i due eventi di riciclo nel tempo ma su materiali organici è molto più difficile. Questo a livello archeologico. Se consideriamo invece la preistoria recente (età del rame bronzo, ferro) oggetti in metallo venivano spesso rifusi per ottenere nuova materia prima per la produzione di nuovi oggetti. Il riciclo è comunque ben attestato anche in società tradizionali e in gruppi di cacciatori-raccoglitori odierni che vivono incontaminati e secondo le antiche tradizioni.
Avete compreso le ragioni che spingevano gli Hominins di Qesem a praticare il riuso?
Il riciclo nell’età della pietra, ovviamente, si basava su presupposti ben diversi da quelli moderni: i nostri antenati non erano mossi da ragioni ecologiste, anzi, al contrario sfruttavano fino ad esaurimento le risorse disponibili in quanto su quelle si basava la loro sopravvivenza.
Il riciclo in preistoria è stato associato a diverse esigenze, prima fra tutte la necessità di ottenere in maniera facile e veloce della materia prima da scheggiare (selce ad esempio) in contesti dove quest’ultima era scarsa. Ma, a Qesem cave, le materie prime erano facilmente accessibili sia nelle immediate vicinanze del sito, a pochi chilometri, sia molto più lontano (più di 15km). Dallo studio sull’approvvigionamento delle materie prime abbiamo scoperto che gli abitanti di Qesem sfruttavano giacimenti anche molto lontani dal sito per fabbricare strumenti che richiedevano una produzione più elaborata e attenta (come bifacciali o raschiatoi Quina). Visto che a Qesem il riciclo è un comportamento sistematico e ben rappresentato in tutti i livelli archeologici e in tutte le aree della grotta, sosteniamo che fosse parte del bagaglio culturale di questi hominins e che, al tempo stesso, fosse mosso anche da ragioni di carattere pratico e funzionale.
Quali sono gli scenari che apre questa scoperta?
Guardando ad una prospettiva locale, i dati presentati nella mia ricerca di dottorato hanno fatto luce sui comportamenti dei primi uomini preistorici che vivevano nel Levante tra 400 e 200.000 anni fa. Sappiamo che la presenza umana nella regione risale ad almeno 1,5 milioni di anni, ma circa 400.000 anni fa abbiamo assistito alla comparsa di nuove trasformazioni culturali e biologiche avvenute insieme alla scomparsa degli elefanti. Gli elefanti erano, fino a quel momento, la più importante fonte di energia e cibo per i primi ominidi. Di conseguenza, gli abitanti di Qesem hanno dovuto cambiare le proprie abitudini comportamentali e adattarsi alle nuove condizioni per sopravvivere e prosperare.
In una prospettiva più ampia, questa ricerca riporta l’attenzione su due interessanti argomenti attuali e ancora dibattuti nell’archeologia paleolitica: il significato del riciclaggio e il ruolo funzionale e le modalità di utilizzo degli strumenti litici di piccole dimensioni. I dati presentati, in un sito unico, ben conservato e studiato come la Grotta di Qesem, sono importanti nella misura in cui contribuiscono ad arricchire e stimolare la discussione di questi fenomeni nella comunità scientifica.
Questa ricerca dimostra come oggetti apparentemente inanimati come gli strumenti di pietra possano raccontarci così tanto della vita e delle abitudini dei nostri antenati. Attraverso la loro attenta analisi possiamo scoprire come vivevano gli ominidi preistorici, come interagivano tra loro, come organizzavano le loro attività per far luce sull’evoluzione delle loro capacità cognitive e delle loro strategie di sussistenza.
Quanto è importante la divulgazione scientifica su questi temi? Ritiene importante anche la comunicazione anche attraverso media “non di settore (non tecnici)”?
Certamente. Sebbene il mio lavoro sia di carattere molto tecnico e scientifico, ritengo che la comunicazione attraverso mezzi non di settore come media, social o semplici articoli di giornale possa avvicinare le persone alla conoscenza della Preistoria che, come dimostra il mio studio, non è poi così lontana dal nostro presente. Lo studio della cultura materiale e dell’evoluzione umana in generale è di fondamentale importanza per comprendere come i primi hominins sono emersi, dispersi e hanno interagito tra loro, ma è anche importante per comprendere le nostre origini e chi siamo oggi. È famosa la metafora di Bernard des Chartres che affermava che “siamo nani in piedi sulle spalle dei giganti”. Penso che incarni perfettamente l’importanza di conoscere la storia e il nostro passato antico, fino all’alba della nostra evoluzione. Siamo il risultato di una lunga e meravigliosa evoluzione e sapere come è avvenuta può aiutare a capire il presente per costruire un futuro migliore.