“Uragano”, “nubifragio”, “bomba d’acqua”, “emergenza maltempo”, “calamità”, “catastrofe”, “clima impazzito”, “città in ginocchio”. I media hanno messo in campo negli ultimi giorni, per raccontare l’evento meteorologico estremo che ha colpito Verona lo scorso 23 agosto, tutto l’armamentario retorico che ben conosciamo. Da un’ampia rassegna delle principali testate generaliste nazionali e locali, abbiamo rilevato come, in un profluvio di termini roboanti, risulti sostanzialmente assente la locuzione “cambiamento climatico” e tutti i suoi sinonimi. Se questo è comprensibile nei racconti delle ore immediatamente successive, che inevitabilmente si concentrano sui danni e sulle storie di maggiore impatto, risulta del tutto inconcepibile ed inaccettabile in sede di commento ed analisi. Tra tantissimi esempi, fa quasi tenerezza lo slalom con cui questo editoriale evita di citare la questione del climate change, che viene giusto sfiorata con un pudico “cambiamenti macroclimatici” ben nascosto nei meandri dell’articolo.
Abbiamo già avuto occasione di osservare come, per il mondo della comunicazione di casa nostra, l’espressione “cambiamenti climatici” sembri essere un tabù, quando si tratta di commentare i sempre più frequenti eventi estremi che colpiscono il nostro territorio. È più facile gridare al surriscaldamento globale, invocare Greta Thunberg, e stigmatizzare il negazionismo dei vari Trump e Bolsonaro, se sono le foreste tropicali a bruciare, o i ghiacci artici a fondere. Quando invece il problema si manifesta dentro i nostri confini, ecco che il dibattito viene ricondotto a categorie più innocue. Si correrebbe infatti il rischio, analizzando seriamente le cause dei fenomeni, di constatare che queste risiedono nel cuore del nostro modello di produzione e consumo: automobili, cemento, petrolio. Proprio il nocciolo degli interessi che tengono in piedi il sistema politico e mediatico.
Mentre la consapevolezza dell’opinione pubblica sembra crescere, soprattutto tra le fasce giovanili, il sistema mediatico non pare in grado di liberarsi da questo meccanismo di rimozione, che a tratti sconfina in quello che potremmo definire negazionismo di fatto. Negazionismo pericolosissimo, che rischia di sottrarre al dibattito pubblico una chiara interpretazione della situazione presente, compromettendo così la possibilità di immaginare e perseguire un futuro nuovo e sostenibile.