Buona parte della comunicazione mainstream sulla transizione ecologica veicola l’immagine di una cavalcata senza fatica né ostacoli: una pioggia di soldi pubblici che ci traghetteranno in un futuro ad alta tecnologia, tra distese di alberi rigogliosi e cieli azzurri. Insomma, un bengodi destinato a piacere a tutti: sarà tre volte Natale, e festa tutto il giorno, come dicevano i versi di una vecchia canzone.
In questa immagine, certamente accattivante e che tutti vorremmo fosse vera, è però nascosto il rischio di un fallimento che potrebbe essere senza appello. Il successo della transizione ecologica passa infatti per il dispiacere, e molto, a molte categorie dedite alle attività che ci hanno messo nei guai: energie fossili, automobili, agricoltura intensiva, allevamenti industriali, solo per fare qualche esempio. Quando questo sarà finalmente chiaro, cambierà drasticamente la narrazione mediatica e il sentire comune. Si tratta infatti di lobby forti e ben rappresentate, che non mancheranno di farsi valere, facendo ripartire la grancassa negazionista di cui sono capaci e che ben conosciamo.
Anche il cerchiobottismo al quale assistiamo nei provvedimenti legislativi, evidentemente finalizzato a conservare la pax politico mediatica, rallenta drammaticamente una transizione che al contrario, per la radicalità e urgenza di cui c’è bisogno, dovrebbe somigliare molto a una rivoluzione.
Chi, nel mondo della comunicazione, vuole parlare di transizione ecologica deve prendersi il rischio di essere chiaro: la nostra collettività deve prepararsi a vedere interi settori economici entrare in crisi, in qualche caso a scomparire. Sarà necessario prevedere misure a carico della finanza pubblica, che supportino le riconversioni e mitighino gli impatti sociali. Non sarà facile, né indolore. Gli stessi parametri con i quali la politica e l’economia interpretano la realtà dovranno essere rivisti, pena l’impossibilità di capire il presente e disegnare il futuro. Una medicina amara, soprattutto per gruppi d’interesse che vedono minacciate rendite di posizione consolidatesi nel Novecento e apparse inscalfibili fino a ieri.
Sarà però il banco di prova per capire se il futuro, che tutti immaginiamo diverso, sarà ancora tagliato a misura dell’interesse di pochi come il modello dal quale proveniamo, o se punterà a costruire, per citare Kate Raworth, uno spazio sicuro e giusto per l’umanità, basato su uno sviluppo economico inclusivo e durevole.
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