Da un anno le strade indiane sono percorse dalle proteste contadine che hanno mobilitato fino a decine di milioni di donne e uomini, giovani e anziani. Ne parliamo con Marinella Correggia giornalista ecopacifista che da decenni racconta le lotte degli oppressi della terra.
Quali sono le cause delle grandi proteste dei contadini e le contadine in India?
Anzitutto ricordiamo che il 60% degli 1,3 miliardi di indiani continua a vivere nelle aree rurali. Per le sue dimensioni, le sue modalità e la sua durata, la protesta degli agricoltori (kisan) indiani è da considerarsi storica. Una lezione per tutti, al di là delle cause che l’hanno scatenata. La loro lotta a oltranza chiede il ritiro di tre leggi di riforma in campo agricolo, decise dal governo e votate a ottobre dal Parlamento indiano senza un serio dibattito. Di fatto queste riforme riducono i sussidi statali e incoraggiano gli investimenti privati in agricoltura, rimuovendo le barriere commerciali che garantiscono ai piccoli agricoltori di riuscire a distribuire i propri raccolti sul mercato senza dover competere eccessivamente con i giganti dell’agroalimentare. Le riforme mettono in discussione un sistema pluridecennale basato sui prezzi minimi di sostegno (Msp) garantiti dallo Stato.
Quali sono le strategie di lotta degli agricoltori?
Le modalità nonviolente, l’organizzazione, la durata nel tempo. Si vedono molte barbe bianche fra i contadini che, dal 26 novembre 2020 (quando la polizia impedì loro di entrare nella capitale New Delhi), hanno attraversato i rigori del freddo invernale e poi la fatica della calura estiva nelle tende che insieme alle cucine da campo caratterizzano i presidi intorno alla capitale. Tutto all’insegna della solidarietà fra individui e sigle e del rifiuto di ogni divisione castale o religiosa. Fra l’altro questi assembramenti all’aperto non hanno diffuso il virus Sars-CoV-2. Ne sono testimoni gli stessi medici che monitoravano gli accampati.
La loro lotta ha una valenza ecologica, oltre che sociale, contro la crisi ecologica in atto?
L’agricoltura è, anche in India, la prima a soffrire per le conseguenze dei cambiamenti climatici: monsoni sregolati, siccità, diminuzione della produttività, nuove patologie vegetali, fattori che rovinano i raccolti e minano la sicurezza alimentare, sommandosi all’assenza di sicurezza sociale e all’aumento dei debiti. Non dimentichiamo l’imponente fenomeni dei suicidi nelle campagne.
I sindacati contadini coinvolti nella protesta, ( ad es. la Bku), membri del movimento internazionale La Via Campesina hanno come slogan “I piccoli agricoltori raffreddano il pianeta”. Questo perché le emissioni sono connesse al sistema alimentare industriale mentre “una ridistribuzione planetaria delle terre ai piccoli agricoltori, insieme a politiche per aiutare a ricostruire la fertilità del suolo e a politiche per sostenere i mercati locali, è in grado di ridurre della metà le emissioni di gas serra nel giro di pochi decenni.”
Cosa possiamo fare noi per sostenerli, anche se siamo lontani?
Alle organizzazioni contadine indiane servono manifestazioni di appoggio, anche se piccole, da documentare con fotografie e mandare poi, per esempio, a Kisan Ekta Morcha, gruppo di volontari che aiuta le organizzazioni contadine nella comunicazione.
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