Oltre il 99.9% degli articoli scientifici pubblicati e sottoposti a revisione paritaria concorda sul fatto che il cambiamento climatico sia causato principalmente dall’uomo. Per giungere a queste conclusioni, sono stati analizzati 88.125 studi sul clima. La ricerca ha aggiornato un precedente studio del 2013, dal quale era già emerso che il 97% degli studi pubblicati tra il 1991 e il 2012 supportava l’origine antropogenica del riscaldamento globale. Ciononostante, lo zoccolo duro del negazionismo è ancora presente. Complice Internet e, in generale, sistemi di comunicazione ampiamente elaborati ed accessibili, la disinformazione climatica è dilagata come non mai. In mancanza di un background scientifico, c’è da dire che non è affatto facile districarsi tra l’immensa mole di informazioni circolanti in rete. Soprattutto, poi, se la comunicazione scientifica mediatica lascia a desiderare. Tuttavia, c’è chi, approfittando delle varie inclinazioni personali e facendo leva su degli scetticismi soggettivi innati, del negazionismo ne ha fatto un business.
Da un lato abbiamo chi vuole tutelare i propri interessi e uno status quo. Ad esempio, un rapporto pubblicato nel 2019 da InfluenceMap ha svelato che negli anni successivi all’Accordo di Parigi le cinque maggiori aziende di gas e petrolio (ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron, British Petroleum e Total) hanno investito più di un miliardo di dollari per le campagne di disinformazione sul clima.
Dall’altro c’è chi ha iniziato a monetizzare diffondendo bufale sull’uno o l’altro sito web. Potrebbe sorprendere, ma il traffico virtuale favorito dagli scettici del cambiamento climatico è tale da far arricchire chi mette a disposizione contenuti negazionisti. Motivo per cui perfino Google è dovuta correre ai ripari. Poco più di un mese fa, il colosso tecnologico ha infatti annunciato – insieme a Youtube – lo stop ad ogni forma di monetizzazione per chi diffonde contenuti falsi sul climate change, ad esempio, tramite un blog o un sito. “L’obiettivo – ha spiegato l’azienda in una nota – è bloccare tutto ciò che contraddice il consenso scientifico consolidato sull’esistenza e le cause del cambiamento climatico”. Impossibile quindi guadagnare dalla divulgazione di contenuti che “fanno riferimento al cambiamento climatico come una bufala o una truffa, affermazioni che negano che le tendenze a lungo termine mostrano che il clima globale si sta riscaldando e affermazioni che negano che le emissioni di gas serra o le attività umane contribuiscono al cambiamento climatico”. E in relazione alle modalità con cui decideranno se un’informazione sia vera o falsa scrivono: “esamineremo attentamente il contesto in cui vengono fatte le affermazioni, differenziando tra contenuti che sostengono un’affermazione falsa come un fatto, rispetto a contenuti che riportano o discutono tale affermazione”. Verosimilmente, ciò verrà fatto da un gruppo di fact-checker in parte umano e in parte algoritmico. Non sarà esente da errori, ma, insomma, meglio di niente.
Eliminare il problema alla fonte sarà indubbiamente efficace, ma potrebbe non bastare. Le fonti di informazioni alternative, proprio in risposta al fervore complottista, stanno infatti crescendo a vista d’occhio. Vien da sé che sta al singolo individuo cercare quanto più possibile di non cadere nella trappola della disinformazione. Quindi, come e dove informarsi? In relazione al ‘come’, l’International Federation of Library Associations and Institutions (IFLA) ha realizzato un’interessante infografica, utile a educare e sostenere il pensiero critico, con otto semplici passaggi da compiere per verificare l’attendibilità di una notizia:
Per rispondere al ‘dove’, invece, la scelta migliore potrebbe essere quella di informarsi direttamente attraverso motori di ricerca nati appositamente per aggregare studi scientifici internazionali. Tra questi, Google Scholar è sicuramente tra i più aggiornati ed intuitivi. Se però, come è lecito, dovesse risultare difficile leggere e interpretare complessi papers, allora, la soluzione migliore è affidarsi ai canali ufficiali di istituzioni scientifiche o, meglio ancora, a quelli di divulgatori appassionati. Qui, una lista esaustiva di entrambi fornita da Sci4Dem. A scanso di equivoci, infine, Rete Clima ha poi direttamente segnalato quattro dei principali siti negazionisti da evitare a monte.